Quando una squadra su undici partite di play-off ne vince undici, segna sessantacinque punti e ne subisce ventitre (poco più di due a partita, margine sempre recuperabile), non resta che togliersi il cappello, fare i complimenti e stare zitti. L’Unipol Sai Fortitudo Bologna ha conquistato il suo quattordicesimo scudetto (sesto in dieci anni…, ben nove negli ultimi venti) con pieno merito e certifica una volta di più un’egemonia a livello nazionale destinata a durare ancora a lungo, risultato di un’organizzazione societaria e una professionalizzazione dell’intera struttura organizzativa che non ha eguali nel nostro batti e corri. Non è piaciuta la corsa assassina a casa base di Albert nella quarta partita contro il Parma, è piaciuto ancora meno il gestaccio di Josephina, che nei festeggiamenti alla fine dello stesso incontro si è rivolto al pubblico parmigiano con le mani sulle parti intime e non sono piaciute nemmeno le pubbliche esultanze sui social di tesserati della società bolognese dopo la sconfitta del Parmaclima in finale di Coppa Campioni (da notare che per tutta la serie di semifinale, le due squadre non si sono mai salutate a fine partita…), ma queste “macchie” isolate non sono che un dettaglio e non inficiano (anche se sicuramente non sono in linea con la filosofia che il presidente Bissa intende dare alla società e alla squadra) minimamente il valore della società e dell’impresa della squadra in campo, superiore, nettamente superiore, a tutte le altre, per tutto l’arco della post season. Non sono d’accordo con chi allude a decisioni arbitrali favorevoli o agli infortuni di giocatori importanti (vedi Lino) delle dirette concorrenti. Bologna è stata sfavorita nella quarta partita di semifinale dalla (giusta) espulsione di Albert e dalla mancata espulsione di Guillen che aveva (giustamente) colpito il primo battitore bolognese alla ripresa del gioco, eppure ha vinto lo stesso. In finale è stata sfavorita dall’avere un giorno di riposo in meno tra il termine delle semifinali e l’inizio della serie per lo scudetto, eppure ha, nettamente, vinto lo stesso. E’ vero che spesso negli ultimi anni decisioni dubbie da parte degli arbitri sono state prese a vantaggio del Bologna (vedi la dubbia eliminazione di Paolini in seconda in Gara-4 di finale 2018, vedi espulsione di Mirabal nella partita precedente, vedi decisione di iniziare o continuare Gara-5 di finale contro il Rimini nel 2016, vedi chiamata a casa base in Gara-2 della finale di quest’anno) una fortunata coincidenza che però non può essere considerata come un fattore in grado di influenzare l’esito di uno o dell’altro campionato.

La verità è che negli ultimi dieci anni Bologna è sempre arrivata a giocarsi le partite decisive, le altre si sono alternate, Bologna c’è sempre stata. E per arrivare li devi essere non solo bravo (o forte), ma devi avere un’organizzazione, una mentalità vincente che le altre non sempre hanno dimostrato di avere.

Parma si lecca le ferite per una stagione indubbiamente fallimentare. Sicuramente dalla squadra ci si aspettava qualcosa di più in termini di rendimento, di mentalità, di approccio alle partite, più che di risultati che erano, a pensarci ora, assolutamente possibili.

Questa formula di campionato, assurda, a tre velocità, amplifica, soprattutto nella sua parte finale, le differenze tra chi gioca a baseball per lavoro e chi lo fa soprattutto per passione. Nemmeno Bologna e San Marino erano ovviamente favorevoli a questa formula, che non va a vantaggio di nessuno, ma hanno avuto il merito di saperla interpretare a loro favore, sfruttando il regolamento che permette di ingaggiare giocatori fino al termine della Poule scudetto. Hanno scelto di rinunciare alla Coppa dei Campioni per destinare tutte le risorse alla fase finale del campionato, potendosi in questo modo permettere di presentare per le sfide decisive una squadra composta interamente da giocatori professionisti, con un numero preponderante di giocatori non nati in Italia, che per gran parte della stagione avevano militato in campionati più competitivi e allenanti.

Scelta che dal punto di vista economico avrebbe potuto, in gran parte, effettuare anche il Parmaclima, che però porta giustamente avanti una filosofia differente, basata principalmente sullo sviluppo di giocatori italiani, per la maggior parte locali, al fine di presentarsi come l’approdo finale, l’obiettivo da raggiungere, per i giovani delle tante realtà del territorio. Facendo come Bologna e San Marino, probabilmente, il Parma baseball fallirebbe nel giro di tre anni, perdendo definitivamente la fiducia delle società della provincia e soprattutto la disponibilità dei ragazzi che piuttosto di trovarsi in panchina per la squadra della loro città sceglierebbero probabilmente altre soluzioni e di conseguenza l’apporto di un pubblico, già esiguo, composto come è noto, prevalentemente dai tesserati delle società della zona e non, come succede da altre parti da semplici appassionati.

Proprio per questo però, a bocce ferme, va considerato un errore aver puntato, forse per eccessiva ambizione, sulla riconquista per il terzo anno consecutivo, della massima manifestazione europea. Questo ha costretto la società a destinare risorse importanti all’obiettivo europeo, anticipando scelte che probabilmente avrebbe fatto in modo diverso in seguito.

La squadra di Saccardi ha giocato in modo quasi perfetto per tutta la settimana di Amsterdam, cedendo solo nelle riprese finali in seguito ad un disastroso ingresso in partita dei lanciatori di rilievo e ad un paio di incertezze difensive che hanno inesorabilmente inidrizzato la Coppa tra le mani di giocatori e tifosi entusiasti dell’Hcaw Bussum.

Avendo “pompato”, forse eccessivamente, la possibilità di raggiungere un prestigioso tris, quando la squadra, dopo averlo accarezzato da vicino, se l’è visto sfuggire, è piombata in un buco depressione, dal quale non è più riuscita a uscire. La flessione successiva alla Coppa, avvenuta anche negli anni precedenti, non è stata questa volta causata da stanchezza fisica e infortuni, ma è stata interamente dovuta ad un fattore psicologico.    Una squadra in possesso della mentalità vincente sarebbe rientrata in Italia con ancora maggior cattiveria e determinazione allo scopo di riscattare quel risultato negativo.           Al contrario sono venute a galla incomprensioni, incompatibilità caratteriali e alla fine anche mancanze sia a livello tecnico che, soprattutto di mentalità. Bisogna essere obiettivi: Parma non avrebbe in nessun modo potuto, quest’anno, con questa squadra, vincere il titolo. E’ vero che tre sconfitte su quattro nelle semifinali sono state di un solo punto, ma l’impressione suscitata dalle due squadre in campo era quella di una differenza ben maggiore. Era lecito però aspettarsi qualcosa di più dalla squadra e da parecchi singoli.

A Parma si tende troppo spesso ad attaccarsi agli alibi più svariati, a scaricare sugli altri e a non sapersi mai fare carico delle responsabilità delle sconfitte, del rendimento sul campo, ma anche delle scelte dentro e fuori dal campo. Questo è un limite che esiste purtroppo da quarant’anni e che è difficile estirpare.

Anche il tecnico, con lui lo staff, ha ovviamente le sue colpe. A cominciare da alcune scelte fatte in inverno, sulle quali si è intestardito e che, purtroppo alla fine gli hanno dato torto, per proseguire con una certa difficoltà mostrata nella gestione del rapporto con i giocatori, in alcuni casi già in passato o suoi compagni di squadra o giocatori di squadre nelle quali aveva allenato o lavorato nelle vesti di bench-coach. Questo lo ha indubbiamente condizionato e con l’avanzare della stagione e i risultati che non arrivavano, inevitabilmente lo ha inghiottito in un vortice dal quale non era evidentemente in grado di uscire, se non con la protezione di una società forte che facesse da scudo nei confronti della squadra stessa e dell’opinione pubblica. Alla fine, probabilmente anche il suo carattere istintivo e incline all’agitazione nei momenti “caldi” (quante volte te l’ho detto?) ha finito per non garantire al gruppo quella sicurezza necessaria, trasmettendo anzi talvolta, un nervosismo controproducente.

Alla resa dei conti però, il tecnico si è ritrovato ad essere il classico coccio di terracotta in mezzo a vasi di ferro. Da una parte la squadra, dall’altra la società e lui, con il suo staffa spesso a fare da parafulmine per situazioni probabilmente evitabili.

Sarà lui a pagare? Sarà confermato? Sceglierà di andarsene? Lo vedremo, è presto ed ognuno in questo momento, sbollita l’inevitabile delusione, sta facendo le proprie valutazioni.  Non spetta a noi dare giudizi trancianti ne gettare la croce addosso a nessuno, anche in considerazione della passione con la quale ognuno svolge il proprio “mestiere”, ma ci limitiamo a citare alcuni, freddi, numeri: dal 2012 ad oggi sono cambiati quattro allenatori, nella squadra sono passati più di cento giocatori, tra italiani, comunitari ed extracomunitari, tre presidenti e due sponsor. Ma un solo direttore sportivo, un solo general manager, un solo direttore tecnico, poi diventato allenatore e poi andato in un’altra società. In undici stagioni la squadra ha vinto due coppe dei campioni. L’ultimo scudetto è stato vinto tredici anni fa, quello precedente tredici anni prima. La settimana prossima si raduna la nazionale maggiore per i campionati europei: con otto giocatori del Parmaclima, tutti italiani, sei parmigiani.

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