Foto- M. Vasini (Parma-repubblica)
C’è una data precisa nella quale dentro di me è morto il baseball, inteso come passione, gioia, divertimento, amicizia: l’8 dicembre del 2014. Quel giorno, al Galà dei Diamanti, davanti a duemila persone, sul palco dell’Auditorium Paganini, mio fratello, in lacrime, annunciava ufficialmente alla sua città che se ne andava al Rimini, per i motivi che tutti sappiamo. E’ un boccone che ho mandato giù amarissimo, ma che ho sopportato solo perché andava in un ambiente nel quale avevamo molti amici, che ci conosceva da quando eravamo bambini e che ci ha sempre fatti sentire a casa. Non avrei sopportato per nessun’altra squadra. Ma quel giorno è finito un sogno.
Un sogno che avevo io da piccolo e che poi ha avuto mio fratello: diventare un simbolo e spendere tutta la carriera nella squadra per la quale abbiamo sofferto e gioito prima dagli spalti e poi dal campo. Per la squadra della nostra città, dei nostri amici, dei nostri compagni e dei nostri avversari che dietro quella maglia diventavano compagni. Mio fratello è andato, ha vinto, ha guadagnato, si è divertito, poi ha ringraziato ed è tornato. Ma il giocattolo era ormai rotto.
Oggi il mio amore per il baseball è morto un’altra volta. Con l’addio di Alex Sambucci al Parmaclima se ne va un altro pezzo importante della mia storia in questo gioco. Se ne era già andato Sebastiano Poma, che ritrovo alla Crocetta e ne sono entusiasta, ma è ovviamente una cosa diversa. Piano piano tutto si sfalda, è anche il segno degli anni che passano e inevitabilmente suscita un po’ di malinconia.
L’addio di “Samba” fa un po’ più male perché è dovuto ad una lacerazione di rapporti tra le persone. Non mi piace entrare nel merito di decisioni altrui, anche se, pur nel dispiacere per una persona come Alex, bisogna onestamente ammettere che la scelta della società era inevitabile, alla luce della situazione che si era venuta a creare.
Il giocatore e l’allenatore avevano, in tempi diversi dato al club una sorta di “aut-aut”: “O me o lui” è la sintesi del discorso di entrambi. In un primo momento sembrava che il tecnico non volesse proseguire nella sua avventura alla guida della squadra, poi è tornato sui suoi passi, convinto anche dalla società, ad una serie di condizioni. Una di queste condizioni era che nella squadra non ci fosse Sambucci, il quale aveva già espresso il suo concetto. Inutile, a questo punto, sostenere che fosse giusto tenere il giocatore o tenere l’allenatore. Se il club era convinto di andare avanti con Saccardi era giusto rinunciare a Sambucci. Ma comunque sottostare ad un out-out di un giocatore avrebbe significato creare un precedente pericoloso e perdere di credibilità.
Se mai, a mio avviso, sbagliato, o quantomeno inopportuno, è stato il “consiglio” che qualcuno (probabilmente il presidente) ha dato a Sambucci: di cercare un punto di incontro con l’allenatore. Non era ovviamente possibile e il tecnico lo ha ribadito via messaggio al giocatore. Che adesso si sente comprensibilmente “tradito”. Più opportuno sarebbe stato dirgli qualcosa del tipo: “Guarda Alex, ci dispiace molto, ma stante la situazione, noi abbiamo deciso di avallare la posizione di Saccardi”, perché, al di là di tutto, questa è la realtà.
Dispiace, perché si tratta di un giocatore che arrivato giovanissimo da Latina, ha fatto di Parma la sua città, qui si è sposato e ha messo al mondo due splendide bambine. Perché si tratta di un ragazzo che ha dato il mille per mille e anche di più per la squadra, la società, i compagni e anche i tifosi. Di questa squadra è diventato un simbolo. Forse più di altri, più coccolati, ma che magari, sono giocatori del Parma baseball giusto il tempo della partita o dell’allenamento.
Un attaccamento che però si è rivelato anche, per la personalità che lo caratterizza, anche una sorta di boomerang. Un atteggiamento spesso polemico e spigoloso, nelle sue intenzioni per il bene della squadra, dei compagni e della società, che però talvolta si è tradotto in atteggiamenti che non hanno portato positività.
Alla fine dei conti, però, di chi sia la colpa interessa molto poco: questa è una sconfitta per tutti. Per il giocatore, per la società, per i compagni, per i tifosi e per tutto l’ambiente. Ci perdiamo tutti in ugual misura. Anche chi gioca, allena o lavora, in altre realtà della città o della provincia. Non solo perché passa il concetto che le cosiddette bandiere si stanno estinguendo, ma anche perché sdogana un certo tipo di atteggiamento della serie “tutti contro tutti”, che fa male al movimento, soprattutto in un contesto di particolare incertezza come quello che stiamo vivendo, caratterizzato da crisi del nostro sport e non solo e di cambiamenti normativi e regolamentari che già di per se contribuiscono a rendere sempre più difficoltoso ed incerto il futuro.